Anna Cappelli (CanticOpera) – testo originale di Annibale Ruccello

regia Massimo Finelli
con Patrizia Eger
e con Sissy Brandi, Chiara Cucca, Matteo De Luca, Michelangelo Esposito, Sabrina Gallo, Eleonora Migliaccio, Valentina Vittoria

coreografia Elena D’Aguanno danzatrice Benedetta Musella
disegni Grazia Iannino

produzione Akerusia Danza
durata 50′
dimensioni palco: 6×4 m | tecnica: amplificazione da sala, n. 6 pc , un videoproiettore

Una donna.E tutte le donne in questa donna. E sei attrici, che scompongono membra, pensieri e parole di Anna Cappelli, facendone rito, voce individuale ma collettiva, e coro parcellizzato, frame, singolo momento umanissimo. (…) Finelli nella secca didascalia del testo di Ruccello tra una scena e l’altra che suggeriva un generico “stacco musicale”, ha trovato la possibilità di operare una nuova messa in scena che è diventata una rilettura corale di questo classico. Anna Cappelli, che si interroga sulla sua identità malata di non essere abbastanza, di non avere un ruolo codificato dalle convenzioni borghesi, ben definito, trova nuova linfa nell’originale rilettura del sottotesto affidata al coro che integra il non detto ruccelliano, le ellissi psicologiche e temporali, che spinge per mettersi al centro dell’azione scenica restituendo alla protagonista tutta la sua sconvolgente unicità. 

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Ho visto stasera “Anna Cappelli” di Annibale Ruccello con la regia di Massimo Finelli. Patrizia Eger nel ruolo del celebre personaggio, scarnificato di qualsiasi naturalismo, circondata da un coro di giovani attori – che a tratti amplificano le emozioni, in altri momenti compiono o anticipano allusivamente le azioni -, attenta a un uso sapiente, tagliente e matematico delle parole e di ogni piccolo respiro e gesto; immobile nelle ombre, e ombra tra le ombre, delinea una donna terribile, rancorosa e insieme pura e fanciullesca, furiosa e nel contempo pavida e scialba, segnata da una deprivazione e solitudine precoci, che anche quando la spingono a cercare un possesso estremo dell’altro, non possono che restare tali. Anna è sola nella casa di origine (ripete più volte come la sua stanza sia stata ingiustamente ceduta alla sorella Giuliana subito dopo la sua partenza); sola nella casa di Latina dell’egoista signorina Tavernini, che la ospita in subaffitto e tiene il lucchetto al telefono e il televisore spento; sola nella casa di dodici stanze del ragioniere Tonino Scarpa incapace di amarla, di accoglierla, di restituirle dignità. Le case di Anna sono un’estensione del suo sé deprivato. Il suo estremo atto finale è un tentativo fittizio, straziante e pure ineludibile di riempire quel vuoto. Patrizia Eger mi ha detto, dopo lo spettacolo, che per arrivare ad interpretare Anna, ha dovuto assolverla, ha dovuto impegnarsi a comprendere, e non giudicare, il suo atto omicida e antropofagico, e attraverso questa scelta di piena accoglienza è riuscita a restituirle i palpiti del mito, di una Erinni smarrita e affamata in sempiterno di latte materno e di gioco. La regia di Massimo Finelli ha fornito una densa cornice alla parabola tragica e pure a volte comica, dolorosa e pantomimica del mito di Anna Cappelli.

recensione di Giuseppe Iaculo – scrittore e psicoterapeuta

sinossi

Un’ impiegata comunale, cresciuta con ambizioni altrettanto comuni (matrimonio, casa, figli) muore nel tentativo di costruirsi e preservare un’ identità che va in pezzi suo malgrado. E’ una storia d’amore incastrata tra le ganasce della solitudine e di un mal posto senso di quanto è MIO. Uccidere l’oggetto del proprio desiderio significa confondere mio con io. Chi se ne va porta con sé una parte di me; per alcuni è inaccettabile. Anna Cappelli – Canticopera spoglia la protagonista del costume piccolo-borghese, affondandola in un pantano di ricordi, fantasie, ossessioni. La recitazione è un monologare ossessivo: interlocutori assenti, voci inudibili a cui rispondere. Tutto è già accaduto: il qui e ora è agito da una folla minuta di attori che tenta relazioni difficili, azioni a vuoto, tentativi di riempire buchi di identità e tempo. A cose fatte restano quelli, per chiunque.

note di regia

Come rinnovare la messa in scena di un testo già classico della drammaturgia contemporanea? Rileggendolo scopro che i sette quadri che compongono Anna Cappelli sono intervallati da “stacchi musicali”, didascalie senza altre specificazioni. Ecco il margine di libertà, mi dico, per una scrittura scenica che ri-contestualizzi l’originale. Cosa può accadere negli stacchi? Cosa farne? Considero che si tratti di una tragedia attualizzata (una commedia nera, una tragedia bianca) e finisco col rispettarne il canone più antico: un(a) protagonista e un coro, al quale affidare suoni, pantomime, danze. Anche il delirio è una coabitazione del soggetto con altre voci: un coro di obiezioni, commenti, suggerimenti, insulti. La questione in ballo è identitaria: non più figlia, non solo impiegata, non moglie, non madre. Chi sono?Tenta ruoli per i quali è inadeguata, non diversamente dai coristi che provano a ritagliarsi spazi da protagonista nella comune medietà scenica. Mejerchol’d sosteneva che il cruccio di ogni attore stia nella domanda: perché non posso fare il solista? Cosa mi manca?A completare il quadro: disegni che alludono a un immaginario diario segreto della protagonista, al suo copione mancato.

 

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