occhio di maiale (canticopera)

Occhio di Maiale (canticopera) – da un originale di Mario Serra

voci Patrizia Eger, Massimo Finelli
colonna sonora dal vivo Massimo D’Avanzo
danzatrice Carmen Famiglietti
opere in videoproiezione Mario Serra

regia e adattamento Massimo Finelli
produzione Itinerarte
durata 45′

tecnica
dimensioni palco: 6×4 m circa
fonica: mixer e amplificazione da sala,
n.2 microfoni Shure M58 con aste
n.2 leggii
luci: n. 6 pc, un videoproiettore 

quasi una sinossi

Targhe identificative lapidano la strada!
Trasporto il mio nome, la mia anima, la mia bicicletta!
Il freddo penetra la camicia, arriva fino al mal di testa.
Il mio pasto è di misera carne frettolosa, mortadella unta rigirata su pane raffermo.
Costo poco, solo rimborso spese, senza iva, senza controlli finanziari: “Affittasi affetto al numero ventitré.” “Affittasi affetto al numero…che numero era?”

note di regia

Occhio di Maiale è un progetto sincretico, sulla linea d’intersezione di teatro, musica, danza. Il neologismo canticopera citato nel titolo indica una modalità di esecuzione del testo (scritto) che non è solo recitazione, non è già canto, non è ancora confessione. Il testo originale è umorale, frammentato, scritto benissimo. Si è trattato di ricomporlo, emendarlo, tradurlo in testo per la scena, monologo intimo a più voci, in musica prima, in azioni poi. Il risultato finale è un teatro-concerto, una canticopera umanissima e musicale.Si è trattato di evocare un panorama mentale, le variazioni di colore emotivo di un sentire complesso, brutale e delicato insieme. Verrebbe da pensare alle memorie dal sottosuolo, alle confessioni al bar di uomini che nel tempo hanno sviluppato un terzo occhio animale, asociale, amabile a suo modo. Infine: come portare in scena un testo poetico? Rispettandone la natura, ovvero ricordando che la (buona) poesia è davvero rivoluzionaria: nuovi temi, nuovi punti di vista, nuove modalità di esecuzione scenica.

 

 

the between – il TRA

the between – il TRA

testo originale di Massimo Finelli con intersezioni di Gillo Dorfles

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voce: Massimo Finelli | chitarra classica e strumentazione elettronica: Duilio Meucci

durata: 45′ | dimensioni palco: 4×4 m | tecnica: amplificazione da sala, n. 5 pc

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Se prendiamo in considerazione il consueto ambiente medio in cui si vive nelle città dell’Occidente capitalistico vedremo che ovunque si assiste a una situazione di “assenza intervallare” nella vita di ogni uomo.

Che intendo dire? Che la giornata dell’uomo medio -lavoratore, professionista, intellettuale, casalinga – è costituita da una serie ininterrotta di eventi – spesso pesanti e dolorosi, legati a un durissimo lavoro – il tutto condito con l’immancabile presenza di trasmissioni televisive, di musiche radiotrasmesse, verso le quali viene prestato un ascolto disattento. Giornate – di lavoro o anche di riposo – che si svolgono in una continuità costante di sollecitazioni sensorie – utili o inutili, gradevoli o sgradevoli, volontarie o imposte – ma comunque onnipresenti e irrecusabili.

Dove siamo? Ancora con le parole di Dorfles:

Ci troviamo, oggi, mi sembra, sull’orlo d’ un “vuoto d’aria”.

prima nazionale TACT Festival 208 – Trieste >>>>>>>

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sinossi

E’ la storia di una giornata comune, raccontata dall’interno.

“Lavoro. Elettrificazione di un circuito in serie. Io sono un tratto del circuito. Che esiste per attivare una lampadina. Che illumina una stanza vuota. Qui la produzione è ri-produzione: le macchine scopano, io rendo. Convoglio il flusso del prodotto interno lordo.
A metà pomeriggio, alla luce del mio terminale, sogno il mio braccio destro. Indossa un ago e un tubo di gomma. Il tubo finisce dentro una borsa di plastica che nutre il corpo in coma. La pelle è traslucida, cambia colore e forma, la faccia muta come il resto. Casse amplificate annunciano che tutto procede: la superficie cambia, il morto vive, tatuato da marchi che si ostinano pudichi a non volersi incidere a fuoco. Perché? Faremmo prima.

Penso di staccare la flebo, così allungo la mano sinistra verso l’incavo del gomito opposto. Ferma decisione. Quattro secondi. Resto. Tutti i miei sogni, quelli già sognati e quelli a venire, passano sotto la pelle sottile del cadavere. Li vedo, niente di che. Ritiro la mano e mi contemplo, parte del tutto, riflesso sotto una pelle che non è mia.”

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Duilio Meucci

Chitarrista, compositore, diplomato alla HEM di Ginevra con Dusan Bogdanovic, ha studiato con Luciano Accarino e Angelo Gilardino. Suona in duo e in trio con Francesco Venga (viola) e Marco Salvio (flauto). Ha di recente inciso il Concerto per chitarra e trio jazz di Claude Bolling per Brilliant Classics. Per la stessa etichetta è in uscita il suo ultimo lavoro monografico su Benjamin Britten.

contatti

mail: exstudio@libero.it

anna cappelli (canticopera)

Anna Cappelli (CanticOpera) – testo originale di Annibale Ruccello

regia Massimo Finelli
con Patrizia Eger
e con Sissy Brandi, Chiara Cucca, Matteo De Luca, Michelangelo Esposito, Sabrina Gallo, Eleonora Migliaccio, Valentina Vittoria

coreografia Elena D’Aguanno danzatrice Benedetta Musella
disegni Grazia Iannino

produzione Akerusia Danza
durata 50′
dimensioni palco: 6×4 m | tecnica: amplificazione da sala, n. 6 pc , un videoproiettore

Una donna.E tutte le donne in questa donna. E sei attrici, che scompongono membra, pensieri e parole di Anna Cappelli, facendone rito, voce individuale ma collettiva, e coro parcellizzato, frame, singolo momento umanissimo. (…) Finelli nella secca didascalia del testo di Ruccello tra una scena e l’altra che suggeriva un generico “stacco musicale”, ha trovato la possibilità di operare una nuova messa in scena che è diventata una rilettura corale di questo classico. Anna Cappelli, che si interroga sulla sua identità malata di non essere abbastanza, di non avere un ruolo codificato dalle convenzioni borghesi, ben definito, trova nuova linfa nell’originale rilettura del sottotesto affidata al coro che integra il non detto ruccelliano, le ellissi psicologiche e temporali, che spinge per mettersi al centro dell’azione scenica restituendo alla protagonista tutta la sua sconvolgente unicità. 

vai alla recensione completa di Paola Spedaliere

Ho visto stasera “Anna Cappelli” di Annibale Ruccello con la regia di Massimo Finelli. Patrizia Eger nel ruolo del celebre personaggio, scarnificato di qualsiasi naturalismo, circondata da un coro di giovani attori – che a tratti amplificano le emozioni, in altri momenti compiono o anticipano allusivamente le azioni -, attenta a un uso sapiente, tagliente e matematico delle parole e di ogni piccolo respiro e gesto; immobile nelle ombre, e ombra tra le ombre, delinea una donna terribile, rancorosa e insieme pura e fanciullesca, furiosa e nel contempo pavida e scialba, segnata da una deprivazione e solitudine precoci, che anche quando la spingono a cercare un possesso estremo dell’altro, non possono che restare tali. Anna è sola nella casa di origine (ripete più volte come la sua stanza sia stata ingiustamente ceduta alla sorella Giuliana subito dopo la sua partenza); sola nella casa di Latina dell’egoista signorina Tavernini, che la ospita in subaffitto e tiene il lucchetto al telefono e il televisore spento; sola nella casa di dodici stanze del ragioniere Tonino Scarpa incapace di amarla, di accoglierla, di restituirle dignità. Le case di Anna sono un’estensione del suo sé deprivato. Il suo estremo atto finale è un tentativo fittizio, straziante e pure ineludibile di riempire quel vuoto. Patrizia Eger mi ha detto, dopo lo spettacolo, che per arrivare ad interpretare Anna, ha dovuto assolverla, ha dovuto impegnarsi a comprendere, e non giudicare, il suo atto omicida e antropofagico, e attraverso questa scelta di piena accoglienza è riuscita a restituirle i palpiti del mito, di una Erinni smarrita e affamata in sempiterno di latte materno e di gioco. La regia di Massimo Finelli ha fornito una densa cornice alla parabola tragica e pure a volte comica, dolorosa e pantomimica del mito di Anna Cappelli.

recensione di Giuseppe Iaculo – scrittore e psicoterapeuta

sinossi

Un’ impiegata comunale, cresciuta con ambizioni altrettanto comuni (matrimonio, casa, figli) muore nel tentativo di costruirsi e preservare un’ identità che va in pezzi suo malgrado. E’ una storia d’amore incastrata tra le ganasce della solitudine e di un mal posto senso di quanto è MIO. Uccidere l’oggetto del proprio desiderio significa confondere mio con io. Chi se ne va porta con sé una parte di me; per alcuni è inaccettabile. Anna Cappelli – Canticopera spoglia la protagonista del costume piccolo-borghese, affondandola in un pantano di ricordi, fantasie, ossessioni. La recitazione è un monologare ossessivo: interlocutori assenti, voci inudibili a cui rispondere. Tutto è già accaduto: il qui e ora è agito da una folla minuta di attori che tenta relazioni difficili, azioni a vuoto, tentativi di riempire buchi di identità e tempo. A cose fatte restano quelli, per chiunque.

note di regia

Come rinnovare la messa in scena di un testo già classico della drammaturgia contemporanea? Rileggendolo scopro che i sette quadri che compongono Anna Cappelli sono intervallati da “stacchi musicali”, didascalie senza altre specificazioni. Ecco il margine di libertà, mi dico, per una scrittura scenica che ri-contestualizzi l’originale. Cosa può accadere negli stacchi? Cosa farne? Considero che si tratti di una tragedia attualizzata (una commedia nera, una tragedia bianca) e finisco col rispettarne il canone più antico: un(a) protagonista e un coro, al quale affidare suoni, pantomime, danze. Anche il delirio è una coabitazione del soggetto con altre voci: un coro di obiezioni, commenti, suggerimenti, insulti. La questione in ballo è identitaria: non più figlia, non solo impiegata, non moglie, non madre. Chi sono?Tenta ruoli per i quali è inadeguata, non diversamente dai coristi che provano a ritagliarsi spazi da protagonista nella comune medietà scenica. Mejerchol’d sosteneva che il cruccio di ogni attore stia nella domanda: perché non posso fare il solista? Cosa mi manca?A completare il quadro: disegni che alludono a un immaginario diario segreto della protagonista, al suo copione mancato.

 

edip(p)po: apoteosi di un imbecille

vai alla scheda di presentazione

edi(p)po: apoteosi di un imbecille

drammaturgia e regia Massimo Finelli
interpreti Patrizia Eger , Giuseppe Giannelli, Michelangelo Esposito, Giovanni Esposito, Daniele Sannino, Gianluigi Montagnaro, Claudia Scuro
musiche originali Duilio Meucci
costumi Esther Varriale
tecnico luci Giuseppe Mastelloni
grafica, video, elementi scenografici exstudio

Edipo: Perché rinviare è meglio che aspettare?
Giocasta: Perché ogni attesa anticipa l’agire e non intendiamo smuovere le acque. Il rinvio è mèntore dello stallo e insegna che ogni questione non affrontata si risolve da sé.
Edipo: E’ vero?
Giocasta: No, ma è preferibile che lo credano.

Anteprima TACT Festival – Teatro Stabile Sloveno – Trieste – 26 maggio 2017 | Prima Teatro TRAM 16-19 novembre 2017 |
Repliche Teatro NEST (Na), Festival Sui Sentieri degli Dei (Agerola – Sa), Museo del Sottosuolo (Na)

 

recensione di Giovanni Luca Montanino su Sipario.it:

“Edipo Re è un dramma familiare sublime, nel senso di bello e mostruoso, dove passioni viscerali e incontrollabili si mescolano alla violenza inaudita e dove addirittura il ruolo dei figli si sovrappone a quello degli amanti. Da tanta poesia (e da altrettanta sofferenza) può forse nascere una farsa, di quelle che assistendovi, dimenticando per un attimo la ben nota storia, ci si sorprende a sorridere di divertimento? Ebbene, il drammaturgo e regista Massimo Finelli raccoglie con successo la sfida di trasformare la saga tebana in una commedia.
Nella tragedia di Sofocle Giocasta si toglie la vita (appresa la drammatica verità dell’incesto), mentre Edipo si acceca e si auto-condanna all’esilio. Entrambi, insomma, scelgono l’ammissione di colpa e l’espiazione estrema. Nella farsa, invece, i sovrani grotteschi non si fanno carico dei problemi che affliggono la città, ma tirano a campare (come molti dei governanti oggi) e fanno i finti tonti.”

Vai alla recensione completa su sipario.it 

 

sinossi

E’ una riscrittura in chiave farsesca dell’Edipo Re. L’assunto di partenza è l’irreperibilità ai giorni nostri del dittico potere/responsabilità. L’obiettivo del novello Edipo è questo: evitare ogni responsabilità, rimandare quanto è possibile la soluzione dei problemi, tirare a campare.
La vicenda inizia con la peste e il tentativo di scoprirne le cause tramite i vaticinii riportati da Creonte, andato per suo conto all’oracolo di Delfi.
Anche Edipo Re comincia così, ma la nostra storia prende una diversa piega molto in fretta: Creonte cade da cavallo alle porte di Tebe, appestato anche lui. Il solo messaggio che riesce a verbalizzare è oscuro e tutto da interpretare: “tre soli fonemi articola il caduto…A…I…O!”
Tutto inizia e finisce con profezie male interpretate o volutamente distorte. Restano in ballo  le questioni poste dall’originale di Sofocle, ma date le premesse cambieranno le soluzioni.
Edipo finirà come molti capi del nostro tempo: dall’assoluta inconcludenza alla glorificazione per eccesso di dabbenaggine dei sudditi. Alla fine tutti felici e contenti, come in ogni farsa che si rispetti, in attesa che la peste si risolva da sé: un classico del nuovo millennio.

 

note di regia

La condanna che l’Edipo Re di Sofocle si infligge con l’accecamento e l’esilio è un atto politico di testimonianza.
Il suicidio di Giocasta la restituisce alla natura: si impicca la madre incestuosa, non la regina. Edipo resta invece un uomo della polis, un politico nell’accezione più alta del termine: la sua assunzione di responsabilità è assoluta. Un Edipo sconvolto e suicida sarebbe umanamente comprensibile, ma il punto chiave della tragedia è nella sillaba che chiude il titolo: Re, ovvero uno che deve restare un esempio tanto nella vittoria quanto nel peggiore dei fallimenti. La polis si fortifica con qualcuno o contro qualcuno. Detto altrimenti: ogni comunità si definisce sulla base di regole e proibizioni condivise; chi detiene il potere dovrebbe incarnarle entrambe. Edipo lo sa e ne accetta il peso, contro se stesso, per la città.

Questo Edi(p)po è invece poco più che una bestia affamata, per la quale, con le parole di Giocasta: “…non occorre avere coraggio, bastano complici discreti e nessuna vergogna per farsi re”. E’ il ritratto di uno dei tanti sovrani che eleggiamo di tanto in tanto, quasi per acclamazione; in una cornice di tragedia  farebbero una magra figura,  ma una farsa può accoglierli comodamente.

i ciechi

I Ciechi – di Maurice Maeterlinck

adattamento e regia Massimo Finelli

con Cinzia Annunziata/Giorgia Dell’Aversano, Giovanni Esposito, Michelangelo Esposito, Fabio Faliero, Claudio Fidia/Giuseppe Giannelli, Valeria Impagliazzo, Lisa Imperatore, Vincenzo Liguori, Valentina Iniziato
musiche originali Duilio Meucci
voce fuori campo Patrizia Eger
disegno luci Cinzia annunziata, Fabio Faliero
grafica e video exstudio

Un gruppo di ciechi, smarrito in un selva, aspetta il ritorno della guida, un vecchio prete morto a loro insaputa. Il tempo dello spettacolo si consuma nell’ attesa, mentre l’imprevedibile è alle porte. Qualcuno prega: “Dio Mercato che sei altrove, dacci oggi la nostra de-realizzazione quotidiana, de-evolvici, de-civilizzaci. Dacci numeri, algoritmi, ferocia matematica e accumulazione di niente in forma di denaro, trasforma le forme fisiche in dissolvenza d’immagini, nascondi la verità ai nostri occhi e facci sparire nel buco nero dell’accumulazione finanziaria.”

 

note di regia

I Ciechi raccontano di noi.  Il testo originale è del 1890, letto da sempre come metafora della morte di un dio invocato e assente. Oggi la questione è un’altra: dichiariamo tutti la necessità di una guida, ma ne facciamo tranquillamente a meno. La credenza non dichiarata è quella nell’infallibilità di un sistema finanziario che ha gli stessi attributi di Dio: onnisciente, onnipotente, invisibile. I “doni” offerti dal mercato dei beni consumabili e infinitamente ri-creati (che cos’è la possibilità di rimpiazzare un cellulare con un altro se non l’equivalente di una resurrezione) sono la manifestazione della sua bontà. La pubblicità non dice altro che: Dio/Mercato è Amore. Le nostre esistenze virtuali (si comincia a pensare a chi erediterà il nostro profilo post-mortem) sono una beatificazione in vita.
Il supporto materiale è semplicemente infelice; più o meno tutti facciamo quotidiani test di resistenza; fino a quando reggerà il sorriso al pungolo della rabbia e della depressione? Gli stati nazionali testano le frontiere, anche loro.
Al’interno la situazione si approssima a quella di un condominio (ben gestito) con i vicini che iniziano ad averne abbastanza l’uno dell’altro: odii invisibili.
Che accade in scena? E che può mai succedere? La conversazione evita il silenzio, ma è chiaro che non se ne può più. Maeterlinck chiudeva la pièce con un’invocazione: “Abbiate pietà di noi!”; i nostri sussurrano: “Non abbiate pietà di noi…”. La speranza è l’ultimo inganno.

scheda tecnica

Durata :50′
Testi tutelati dalla S.I.A.E.: No
Musiche tutelate dalla S.I.A.E.: No
Mixer audio +  amplificazione da sala
5 pc 1000 watt + 1 videoproiettore
Dimensioni minime palco 4m x 4 m

il catalogo

Il Catalogo

drammaturgia e regia Angela Di Maso
interpreti Massimo Finelli, Patrizia Eger, Giuseppe Cerrone

scenografia Armando Alovisi
disegno luci Cesare Accetta
tecnico luci Cinzia Annunziata
costumi Alessandro Varriale
grafica exstudio

“Spettacolo che gioca di paradossi, con i coniugi costretti a fare i conti con un “oltre” interiore che li porterà ben più lontano e l’esame del “catalogo” proposto da un ambiguo, ed odioso, venditore diventa occasione per un percorso difficile e duro in cui la “sterilità” diventa simbolica e più ampia malattia. Costruito come un thrilling psicologico, ha atmosfere ambigue e tese in rapido percorso di sgradevoli ansie dolorose, ed attori, Massimo Finelli, Patrizia Eger e Giuseppe Cerrone, convinti ed intensi.” Giulio Baffi

sinossi

Eric e Rose Portman sono una coppia sposata e impossibilitata ad avere figli. La burocrazia in materia di adozioni è lenta e perciò decidono di rivolgersi a un’azienda “sperimentale” che a suo dire risolverebbe il problema, fornendo loro un bambino, immediatamente.
Ciò che sembra essenziale è la scelta del giusto catalogo in cui sono elencate tutte le caratteristiche, fisiche e caratteriali, del tanto anelato “bambino perfetto”.
Ad accoglierli in azienda sarà un eccentrico addetto alle vendite, il signor Law, che invece di dare loro il desiderato catalogo li consegnerà a se stessi e alle menzogne che reggono il desiderio di un figlio e la vita di coppia.

documenti

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note di regia

“L’utero è una scatola. Di quelle che custodiscono e proteggono cose preziose; che sanno di lunghi viaggi. Veniamo fuori. Incontaminati. Buoni. Bramiamo l’accoglienza dell’altro. Sappiamo che è solo nell’incontro, la nostra crescita. Ma l’altro è quasi sempre cattivo, e quando bene e male si incontrano, non è più facile distinguerli. Distinguerci”.
Ho sempre considerato il concetto di nascita del filosofo Hans Jonas una sintesi perfetta di ciò che i rapporti umani sono divenuti.
Siamo diffidenti. Dinanzi alla bontà restiamo perplessi, abituatici più al pressapochismo che all’approfondimento affettivo. Il concetto di disinteresse poi, non solo non ci appartiene più, ma per ottenere ciò che diciamo di volere siamo disposti a tutto, anche a fingere, per una vita intera, di essere altro dal nostro essere.

i tre protagonisti

Sono una (im)perfetta sintesi della bruttura umana. Ognuno ha uno scopo preciso: Rose vuole un bambino a tutti costi e per averlo le occorre un marito verso il quale prova un dissimulato rancore; ad Eric la loro vita in due piace: è lui l’unico bambino da accudire, ma finge di volere questo figlio quanto Rose, per compiacerla. E poi c’è il sig. Law, l’addetto alla vendita di un’azienda che costruisce, per genitori imperfetti,  bambini perfetti da scegliere su un fantomatico catalogo.
Law schernisce e umilia i Portman, smascherando le loro vere nature, i loro veri sentimenti. E infingimenti. Non si tratta solo di puro sadismo, da parte dell’addetto alla vendita, ma di voler chiamare le cose col proprio nome. E se si chiama infelicità, che infelicità sia.
E’ necessario mostrare le cose per quelle che sono, mostrarci per quello che siamo.
Ho cercato di costruire uno spettacolo nudo e diretto, in cui il movimento è statico. Ciò che si muove è la sola parola. La rabbia è repressa, e repressione. L’inumanità è pòrta con gentilezza; perché si sa, la gentilezza è la più potente delle armi. Nel bene. Nel male.

 

strafaust

Strafaust

drammaturgia e regia Massimo Maraviglia
interpreti Massimo Finelli, Giovanni Scotti , Daniele Sannino, Giulia De Pascale
assistente alla regia Aldo Verde
musiche Canio Fidanza/ Massimo Maraviglia
costumi Patrizia Baldissara

scene e grafica Luca Serafino
produzione Asylum Anteatro ai Vergini

sinossi

Strafaust è l’erede degenere di tutti i Faust che lo hanno preceduto. A differenza dei suoi predecessori, però, Strafaust ha già ottenuto e posseduto tutto. Nulla più ha da difendere, rivendicare o da desiderare. Nessun patto, nessun limite di tempo, nessuna condizione vincola la sua assoluta – dunque insulsa – libertà. Di qui l’interrogativo motore del testo: che accade quando nessun desiderio, limite o necessità può supportare più una scelta? Cos’altro può fare un Faust strafatto, stracco, straniato, stramazzato, strabuzzante, stramorto vivente, straniero persino a se stesso che vaga anestetizzato nell’assenza di orizzonti, condannato a marcire in un’eternità venuta male, immobile e indifferenziata? Dovrebbe soltanto morire a se stesso, ma la perdita di ogni argine e di ogni vincolo etico lo ha precipitato in uno squalificato eterno presente, in un tempo reale (che di reale non ha più niente) dal quale, forse, solo un altro pietoso Mefisto potrebbe provare a salvarlo.

 

contatti

Massimo Maraviglia
cell +39 3287484327
mail ubumaxubumax@libero.it

un delirio a due

sinossi

‘Un delirio a due’ è uno spettacolo che parla d’amore durante una guerra e che, nonostante il suo titolo, è una scommessa a tre: Marina Shimanskaya, attrice e regista, Valentina Milan e Marco Palazzoni.

L’opera, che Eugene lonesco scrisse nel 1962, racconta di una coppia costretta a nascondersi in una casa durante una guerra e a (soprav)vivere come può. Lei e lui, questo il nome dei personaggi, passano il tempo a discutere, di tutto e di niente, e sembra non esistere possibilità di comunicazione tra di loro. Eppure è proprio di questo che vive il loro amore. Di una guerra tra le mura di casa che rimbalza l’eco della guerra di fuori, di assurdità che riempiono di senso i secondi, i minuti e le ore e di un filo sottile da tirare e lasciare andare per infinite volte. Non c’è bisogno d’altro. Perché quando non c’è niente, il niente diventa tutto.

‘Un delirio a due’ è uno spettacolo nato per il teatro ma che può adattarsi a tutti quei luoghi che abbiano una storia da raccontare o un’atmosfera particolare dove possa prendere vita questa relazione tra Lui, Lei e il pubblico.

in scena

interpreti Valentina Milan, Marco Palazzoni
regia Marina Shimanskaya

musiche Paolo Rossi
disegno luci Giuseppe Matellon
produzione Teatro degli Sterpi

>>>scarica qui i curricula degli attori

a proposito di

Marina Shimanskaya è nata a Saratov (Russia). Dopo avere terminato gli Studi Superiori presso l’Università di Teatro di Mosca (G.I.T.I.S.) e dopo aver lavorato con le migliori compagnie teatrali moscovite, Marina si è affermata come un’autentica stella del Cinema e del Teatro russo.

È la protagonista di più di 15 lungometraggi, serie televisive, una ventina di grandi produzioni teatrali delle compagnie “Sovremennik”, “Ermitage”, Chiot Nechet” e con altre prestigiose compagnie ha girato tutta l’Europa e gli Stati Uniti.

Dal 1992 Marina Shimanskaya lavora in Europa. È attrice, regista e insegnante di Arte Drammatica grazie alla sua ampia esperienza. Ha insegnato Interpretazione presso l’Università di Zaragoza, l’Universidad di Navarra, la Scuola Juan de Antxieta di Bilbao. È un’esperta dei metodi di Konstantin Stanislavskij e Michail Checov . In Spagna ha partecipato a vari progetti teatrali, dirigendo opere di Tolstoj, Checov, Bulgakov, Lorca. Ha recitato nel lungometraggio di Michel Gaztambide “Hombre sin hombre”, nel mediometraggio di Algis Arlauskas “Laugarren mundua” e nella serie televisiva della ETB “Goenkale”. Nel 2009 è stata la protagonista del lungometraggio “El Vencedor” della Televisione Russa. Nel 2008 con Algis Arlauskas ha fondato Ánima (Scuola di Teatro e Cinema di Bilbao) e la compagnia teatrale Txaika Teatro. Per il suo lavoro di pedagoga teatrale ha ricevuto nel 2010 il prestigioso premio Ercilla.

scheda tecnica

durata 60 minuti
spazio minimo richiesto 6×5 metri

Piano luci in condizioni ottimali (adattabile a seconda delle disponibilità):

6 PC 1000W
6 PC 500W
2 PC 2000W

nota: tutti i pc con bandiere

2 ribaltine cambiacolore (Clay paki cp color 400 o Coemar led)
3 gelatine 119 (blu), 7 gelatine 105 (arancione), 6 gelatine 201 (azzurro)
2 prese dimmerata per lampadine interne
16 canali disponibili in consolle

Piano audio: mixer analogico + entrata computer (con DI)

durata montaggio e smontaggio 2 ore/ un’ora

contatti

Marco Palazzoni
cell +39 347 0421826
mail info@teatrodeglisterpi.org
mail exstudio@libero.it